Il commercialista, in quanto consulente contabile e fiscale, si trova quasi quotidianamente a interfacciarsi con le dinamiche aziendali specifiche dei più disparati rami imprenditoriali, e può, in casi estremi, dover gestire situazioni in cui il proprio cliente è intenzionato, per volontà o necessità, a commettere una frode.
Essendo il fisco italiano una materia molto fluida, è in realtà assai facile incappare in errori in buona fede. Ciò che invece non dovrebbe mai verificarsi è la volontaria accondiscendenza del professionista nei confronti delle frodi del cliente.
Ma quando il commercialista può essere accusato di concorso nel reato del proprio cliente?
Le tre macro aree oggetto di analisi in questo articolo saranno i reati tributari, il riciclaggio e l’autoriciclaggio, e i reati fallimentari.
Reati tributari
I reati tributari sono quei crimini mirati all’evasione delle imposte, parziale o totale. I più diffusi si possono riassumere in:
- predisposizione e inoltro di dichiarazioni fiscali contenenti elementi passivi fittizi, supportati da fatture per operazioni inesistenti;
- aggiustamento contabile di gravi violazioni contabili;
- omessi versamenti di imposta o indebite compensazioni crediti/debiti tributari;
- attivazione nel predisporre contratti finalizzati a rendere reali le fatture false registrate e utilizzate nelle dichiarazioni.
La giurisprudenza ha cercato di indicare criteri oggettivi per identificare il contributo del professionista rilevante ai fini penali, contributo che si traduce in comportamenti privi della neutralità tecnica tipica dell’esercizio della professione e che devono ritenersi oggettivamente diretti al compimento del reato, e ha identificato alcuni punti fondamentali.
In primo luogo, occorre provare che il commercialista abbia fornito al proprio cliente un aiuto determinante di tipo morale, finalizzato a rafforzare o determinare eventuali propositi criminosi, o materiale, rendendosi personaggio attivo all’interno del reato.
In secondo luogo occorre valutare se il comportamento del commercialista possa risultare atipico all’interno del contesto in cui è inquadrato. È importante infatti sottolineare che la condotta di un professionista non viene valutata in termini penalistici in sé e per sé, ma è sempre contestualizzata rispetto allo specifico cliente e alla precisa fattispecie in esame.
Occorre infine verificare lo scopo ultimo del reato tributario, e cioè quello di evadere o non pagare le imposte. È proprio questo l’elemento soggettivo in questione. La legge punisce l’imputato che abbia agito per evadere o non pagare le imposte, non per altri fini. Si parla in questo caso del cosiddetto “dolo specifico”, che individua chiaramente un fine specifico per il comportamento delittuoso.
Il problema si complica quando, in mancanza di dolo specifico, si tenta di ripiegare sul dolo eventuale. Si parla di dolo eventuale quando gli elementi di indagine non consentono di provare in maniera chiara e diretta la volontà e la consapevolezza di commettere il reato. In questa fattispecie la giurisprudenza si “accontenta” di una prova che permetta di desumere, su base deduttiva, che l’imputato aveva percepito la propria condotta come potenzialmente rea, e ciononostante non si era fermato. Al commercialista, in questi casi, viene solitamente imputato di aver notato chiare e marcate anomalie in riferimento ai movimenti fiscali e contabili del cliente e di essersi tuttavia reso disponibile a una gestione degli stessi, senza un adeguato approfondimento della vera natura di tali documenti.
Riciclaggio e autoriciclaggio
Il riciclaggio è quell’insieme di operazioni con cui si mira a dare una parvenza lecita a capitali la cui provenienza è in realtà illecita, rendendone così più difficile l’identificazione e il successivo eventuale recupero. Colui che ricicla non prende parte attivamente al crimine che genera i ricavi “sporchi”, ma “ripulisce” tali ricavi, immettendoli in attività legali.
Si parla invece di autoriciclaggio quando chi ricicla somme illegali è anche autore materiale del crimine che le ha prodotte e le impiega in attività economiche, finanziari, imprenditoriali o speculative.
La differenza è sostanziale, per chi commette il crimine, ma soprattutto per il professionista accusato di concorso nel reato in questione.
Infatti, mentre il diretto colpevole subisce una pena diversa, a seconda che venga condannato per autoriciclaggio (da due a otto anni, e sanzione pecuniaria da 5.000 a 25.000 euro, oltre alla pena stabilita per il reato da cui derivano le somme autoriciclate) o riciclaggio (da quattro a dodici anni, stanti le suddette sanzioni pecuniarie), per il commercialista concorrente nel reato la condanna sarà sempre per riciclaggio, essendo pacifico che è giuridicamente impossibile per un terzo estraneo mettere in atto il reato di autoriciclaggio per conto altrui. La conseguenza diretta di questo principio giuridico è che ove un commercialista si prodighi per reimpiegare proventi illeciti del suo cliente, mettendo in atto il cosiddetto money laundering, rischia pene molto severe.
Reati fallimentari
I reati fallimentari sono quei reati posti in essere dall’imprenditore in un periodo antecedente la dichiarazione di fallimento o durante la procedura concorsuale stessa. Occorre distinguere tra i reati fallimentari quelli di bancarotta semplice e bancarotta fraudolenta.
Della prima non occorre approfondire in questo articolo le tematiche, in quanto riguarda sostanzialmente alcuni comportamenti avventati o spregiudicati, ma non volontariamente dolosi, dell’imprenditore.
È importante invece soffermarsi sulla bancarotta fraudolenta.
La bancarotta fraudolenta è quella fattispecie di reato che consiste in comportamenti dolosi dell’imprenditore fallito, quali:
- distrazione, occultamento, dissimulazione, distruzione o dissipazione dei beni del fallito, in tutto o in parte, ovvero, al fine di arrecare danno ai creditori, esposizione o riconoscimento di passività inesistenti;
- sottrazione, distruzione o falsificazione in tutto o in parte dei libri e delle altre scritture contabili, in modo tale da rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio o del reale movimento degli affari, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o al fine di procurare danno ai creditori;
- esecuzione di pagamenti o simulazione di titoli di prelazione, al fine di favorire alcuni creditori a danno di altri.
Le pene previste per le prime due casistiche sono dai tre ai dieci anni di carcere, per la terza da uno a cinque. Per tutte e tre le fattispecie è prevista, come pena accessoria, l’inabilitazione fino a 10 anni all’esercizio dell’impresa commerciale e l’incapacità, sempre fino a 10 anni, a esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.
Ma quando il commercialista può essere accusato di concorso in bancarotta fraudolenta del suo cliente?
Alcune sentenze evidenziano come si possa parlare di concorso allorquando il professionista non si sia limitato a consigliare il proprio cliente su come sottrarre beni dalla disponibilità dei suoi creditori, ma abbia anche partecipato attivamente alla stipulazione dei relativi documenti fasulli. Altre mettono in risalto le attività del professionista di promozione del reato, da un semplice incentivo a commettere il crimine a una vera e propria ideazione e organizzazione di un piano doloso, cioè volto alla predisposizione di tutti i mezzi finalizzati a perpetrare il crimine in questione.
Alla luce di quanto esposto, ciò che si può evincere è che in ogni fattispecie di reato qui elencata il commercialista, per essere accusato di concorso, deve porre in atto una condotta attiva e causalmente determinante, deve cioè assecondare, agevolare o incitare il proprio cliente nei suoi intenti dolosi, o addirittura partecipare attivamente al piano criminale.
Qualunque altro comportamento che rientri nei canoni delle normali mansioni professionali e non si presti a scivoloni deontologici dovrebbe invece essere al riparo da ogni dubbio o accusa.
Il rischio c’è, spesso ben celato nelle più banali mansioni quotidiane. Nessun argomento può essere affrontato con superficialità o eccessiva confidenza, e purtroppo sta solo al professionista evitare quanti più pericoli possibili, facendo affidamento sulle proprie conoscenze e, in ultima analisi, sulla propria moralità.
Di Dott. Dario Ferla; Villa Roveda e Associati