Lo strumento della class action, seppure con le diverse peculiarità che lo contraddistinguono in ciascun paese del mondo, presenta notevoli vantaggi. In Italia questo strumento è stato dapprima disciplinato dall’art. 140 bis del Codice del Consumo e poi novellato dalla l. 31/2019, entrata in vigore lo scorso maggio. Abbiamo già approfondito l’argomento con altri contributi.
Seppure il ricorso alla class action previsto dall’art. 140 bis sia stato negli anni poco frequente, anche per le notevoli difficoltà di accesso alla procedura, ha destato molto clamore il suo utilizzo nel caso c.d “Dieselgate”.
Si trattò della distribuzione da parte di alcune case automobilistiche di autovetture, i cui motori risultarono manipolati al fine di dichiarare dei consumi diversi da quelli effettivi.
Questo contributo, previa ricostruzione dei fatti, mira ad approfondire gli esiti della vicenda giudiziaria e i possibili effetti per coloro che non vi hanno preso parte.
Il caso Dieselgate e la condanna nei confronti delle case automobilistiche
Come già avuto modo di rappresentare in occasione di altri contributi redatti, prima della riforma attuata con la l. 31/2019, entrata in vigore lo scorso 19 maggio, il ricorso alle azioni collettive non ha trovato terreno fertile.
Certamente uno degli esempi più eclatanti di azione di classe promossa ai sensi dell’art. 140-bis del Codice civile è rappresentato dal c.d. Dieselgate.
La vicenda trae origine dalla distribuzione da parte di alcune case automobilistiche di autovetture, equipaggiate con motori diesel Euro 5, sulle quali era stato installato un dispositivo in grado di rilevare se l’automobile fosse guidata su strada ovvero condotta sui rulli di un laboratorio, e di limitare, in quest’ultimo caso, le emissioni inquinanti di ossidi di azoto, al fine di farle rientrare nei limiti previsti dalla normativa europea in materia di omologazioni.
In particolare, una nota azienda tedesca di automotive fu accusata di aver manipolato i motori di alcune vetture al fine di dichiarare dei consumi diversi da quelli effettivi.
Sulla scia di quanto avvenuto in altri Paesi, anche in Italia le associazioni consumeristiche si attivarono per ottenere tutela lamentando «pratiche commerciali scorrette, di pubblicità ingannevole ed aggressiva per occultamento fraudolento di dati inerenti il rispetto delle norme che impongono limiti massimi di emissione».
Il giudizio è stato introdotto innanzi al Tribunale di Venezia nelle forme dell’art. 140-bis cod. cons. nell’interesse di circa 60.000 consumatori.
E’ proprio dei mesi scorsi (7 luglio 2021) la sentenza con la quale è stata accertata la responsabilità contrattuale della nota casa automobilistica per aver, di fatto, ingannato gli acquirenti relativamente ad alcune caratteristiche dell’autovettura.
Il Tribunale di Venezia ha, quindi, riconosciuto un risarcimento di € 3.300,00, oltre interessi, per tutti coloro che hanno aderito all’iniziativa, condannando, inoltre, il colosso automobilistico ex art. 96, 3° comma, del Codice di procedura civile per aver abusato dello strumento processuale resistendo pretestuosamente all’azione giudiziaria.
L’azienda tedesca, in sostanza, è stata ritenuta responsabile di pratica commerciale scorretta, avendo accertato che fosse stato installato un software vietato che consentiva di abbattere le emissioni di ossido di azoto nel corso dei test per l’omologazione.
Effetti della class action
Tale decisione apre uno spiraglio per tutti coloro che, sebbene non abbiano aderito all’azione di classe, siano in possesso dei requisiti per poterlo fare.
Legittimati all’azione, infatti, sono solo coloro che hanno acquistato uno dei modelli di auto “incriminate” nel periodo compreso tra il 15 agosto 2009 e il 26 settembre 2015.
Va precisato però che fino a quando la sentenza non diventerà definitiva, il suo contenuto non avrà efficacia di giudicato, ciò vorrà dire che non potrà avere alcun riflesso nei confronti dei soggetti rimasti estranei al giudizio.
Secondo quando riportato dalla stampa, infatti, la sentenza verrà appellata e occorrerà quindi attendere l’esito dell’appello prima di poter avere un giudicato “spendibile” da tutti i soggetti interessati.
Non occorre disperare tuttavia, in quanto ciò non esclude che i soggetti, in possesso dei predetti requisiti, possano, nelle more, instaurare dei separati giudizi sia autonomi che collettivi (magari attivando la nuova class action, senza dubbio più snella, introdotta con la l.31/2019).
Come già ribadito, potrà agire chiunque abbia acquistato un’auto tra i modelli in cui è stata accertata la manomissione nel periodo compreso tra il 15 agosto 2009 e il 26 settembre 2015, inclusi titolari di veicoli rubati, rottamati, demoliti, radiati o esportati all’estero, di quelli sequestrati, pignorati e privi di revisione, nonché coloro che dopo l’acquisto avevano trasferito il mezzo a terzi.
L’azione potrà essere volta all’accertamento di una pratica commerciale ingannevole e scorretta ai sensi degli artt. 18 ss. d. lgs. n. 206/2005, o ancora, in alternativa rispetto alla pratica scorretta, il difetto di conformità (articolo 130 del Codice del consumo) che prevede però, a scelta del consumatore, la sostituzione o la riparazione della centralina oppure, se non possibile o non effettuata, la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto.
Altri rimedi sono l’annullamento del contratto per errore o dolo in quanto il consumatore sarebbe stato tratto in inganno dal produttore sulle qualità dell’auto (Euro 5 o Euro 6 come indicato anche dalla carta di circolazione), la risoluzione per inadempimento o addirittura la vendita di aliud pro alio (assenza di qualità promesse o essenziali all’uso, articolo 1497 del Codice civile, sempre con risoluzione), oltre all’eventuale risarcimento del danno.
Attenzione, però, la natura extracontrattuale della condotta legata alla pratica commerciale ingannevole pone un ulteriore problema legato al possibile decorso della prescrizione quinquennale dell’azione in oggetto.
Seguendo questa tesi, affinché il consumatore possa agire in giudizio esente da eccezioni, occorrerà che l’interessato abbia inviato degli atti utili ad interrompere la prescrizione (diffide, reclami, contestazioni aventi ad oggetto la vicenda in oggetto o altro atto idoneo ad interrompere il decorso), diversamente l’azione non potrebbe essere promossa stante il decorso del termine di prescrizione quinquennale.
Secondo un’altra tesi, il dies a quo, ovvero il giorno da cui far decorrere il termine di prescrizione, dovrebbe, invece, essere fatto risalire al momento della sentenza del Tribunale di Venezia o, comunque, ad un momento successivo all’instaurazione del giudizio nel corso del quale, attraverso il coinvolgimenti di qualificati esperti e consulenti tecnici, è stata acclarato la manomissione dei software, ovvero la condotta illecita della casa automobilistica.
Tale tesi fa leva sulla tesi secondo cui nel diritto al risarcimento del danno sia per responsabilità contrattuale che extracontrattuale, il termine di prescrizione comincia a decorrere, non già nel momento in cui il fatto del terzo viene a ledere l’altrui diritto, bensì nel momento in cui la produzione del danno si manifesta all’esterno, diventando percepibile e riconoscibile, nonché addebitabile ad un soggetto determinato.
Il dies a quo viene così individuato nel momento in cui il danno diviene oggettivamente percepibile e riconoscibile per chi ha interesse a dolersene, non essendo concepibile l’esercizio di un diritto laddove il titolare non sia venuto a conoscenza di tutti gli elementi costitutivi dello stesso.
In conclusione, la facoltà, per i consumatori che non hanno aderito alla predetta azione collettiva, di poter agire per ottenere un risarcimento dipenderà dalla possibilità di poter invocare l’interruzione della prescrizione.
dell’Avv. Luigi Randazzo; Studio Gierrelex