Il Tribunale di Bari, con ordinanza del 27 aprile scorso, torna sul tema dell’abuso di keyword e dell’impiego del servizio di sponsorizzazione Google Ads per le ricerche fatte usando il marchio d’azienda come parola chiave.
Il commento analizza i profili di legittimità concernenti l’utilizzo –da parte di terzi– di marchi non registrati, denominativi e figurativi, nell’ambito di attività promozionali online che sfruttino lo strumento del keyword advertising. la valutazione tratterà del riconoscimento dello status di marchi di fatto proteggibili ex artt. 2571 del Codice civile e art. 2, comma 4, del Codice della proprietà intellettuale ai segni denominativi e figurativi di carattere intrinsecamente distintivo, e dell’impiego del servizio di sponsorizzazione Google AdWords per le ricerche fatte usando il marchio d’azienda come parola chiave.
I fatti e la condotta parassitaria e sleale della società concorrente
La controversia è stata introdotta da Interflora Italia s.p.a. (“Interflora”), società titolare per il territorio italiano dell’omonimo marchio registrato che, al fine di promuovere la propria attività professionale e commerciale sul web, ha effettuato molteplici investimenti anche nel servizio Google Ads tramite l’acquisto di parole chiave (keyword), al fine di migliorare la propria posizione nell’ordine di visualizzazione delle ricerche effettuate dagli utenti sul motore di ricerca.
Interflora ha lamentato di aver da tempo iniziato a ricevere segnalazioni e reclami da parte di asseriti clienti, i quali lamentavano ritardi e/o mancate consegne, ovvero errori circa i prodotti acquistati, con riferimento a ordini che non erano stati effettuati sul sito della ricorrente, bensì riconducibili alla piattaforma di International Flora.
In seguito, la ricorrente, effettuando delle verifiche, ha scoperto che, digitando all’interno del motore di ricerca di Google il termine “Interflora” appariva un annuncio pubblicitario, successivo al proprio, che rinviava appunto al sito web della società concorrente.
Consapevole della potenzialità lesiva di tale attività, Interflora diffidava – senza successo – la concorrente ad interrompere immediatamente ogni utilizzo abusivo del proprio marchio, decidendo poi di agire in giudizio.
Il Tribunale di Bari ha evidenziato come la società International Flora s.r.l.s. utilizzava, per la promozione dei propri servizi, il marchio “Interflora”, di cui la società ricorrente risultava titolare, per mezzo del servizio Google Ads. Tale pratica, che, in linea di principio, potrebbe anche non risultare illegittima, tuttavia, nel caso di specie, “realizzava un effetto confusorio, tale da escludere ogni sua legittimità e da consentire, invece, alla titolare del marchio (ricorrente) di vietare – anche ai sensi di quanto disposto agli artt. 5, n. 1 dir. 89/104 e 9, n. 1, lett. c) reg. 40/94 – alla resistente di far apparire, a partire dalla keyword identica al proprio marchio, un annuncio pubblicitario per prodotti o servizi identici a quelli per i quali il marchio è registrato”.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea in molteplici pronunce (Cfr. CGUE, 22/09/11 in C-323/09, Interflora; CGUE, 23/03/2010, Google France; CGUE 18/06/2009 in C-487/07, L’Oréal; CGUE, 02/07/2010, C-558/08, Portakabin), ha precisato che le disposizioni innanzi indicate devono essere interpretate nel senso che “il titolare di un marchio che gode di notorietà ha il diritto di vietare ad un concorrente di fare pubblicità a partire da una parola chiave corrispondente a tale marchio che il suddetto concorrente, senza il consenso del titolare del marchio, ha scelto nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet, qualora detto concorrente tragga così indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio (parassitismo) oppure qualora tale pubblicità arrechi pregiudizio a detto carattere distintivo (diluizione) o a detta notorietà. […] Per contro, il titolare di un marchio che gode di notorietà non può vietare, in particolare, annunci pubblicitari fatti comparire dai suoi concorrenti a partire da parole chiave che corrispondono a detto marchio e propongono, senza offrire una semplice imitazione dei prodotti e dei servizi del titolare di tale marchio, senza provocare una diluizione o una corrosione e senza peraltro arrecare pregiudizio alle funzioni di detto marchio che gode di notorietà, un’alternativa ai prodotti o ai servizi del titolare di detto marchio”.
Nella vicenda in esame il pregiudizio al marchio “Interflora” e alla sua notorietà era indubbiamente presente, posto che i consumatori che digitavano all’interno del motore di ricerca Google tale marchio ritrovano tra i vari risultati anche il portale della società concorrente, che offre i medesimi servizi di vendita di fiori e piante online, con consegna a domicilio, in Italia ed all’estero.
Tali elementi hanno comprovato, con sufficiente verosimiglianza, che l’uso del marchio “Interflora” come keyword da parte di International Flora pregiudicava, in particolar modo, non solo la funzione essenziale del marchio di garantire ai consumatori la provenienza del prodotto (v. CGUE, 22/09/11 in C-323/09, Interflora, CGUE 12/11/2002 in C-206/01, Arsenal Football Club), ma anche quella di garantire la qualità dei loro prodotti o servizi, con effetto confusorio e pregiudizio dell’affidabilità del marchio.
È indubbio che una delle funzioni principali del marchio sia proprio quella di consentire agli utenti/consumatori che scorrono i vari annunci pubblicati su Internet di distinguere i prodotti e servizi del titolare del marchio da quelli di altra provenienza.
International Flora – con una sorta di c.d. “parassitismo” – ha tratto indebitamente vantaggio dalla notorietà del marchio “Interflora”, ricevendo ordini da clienti che in un mercato concorrenziale non confusorio si sarebbero rivolti ad Interflora.
Dunque, il Tribunale di Bari ha statuito che “sussiste il presupposto del fumus boni iuris, ossia l’illegittimità della condotta di International Flora, per violazione dei diritti nascenti dal marchio “Interflora” e per concorrenza sleale confusoria ai sensi dell’art. 2598 del Codice civile. L’attualità della condotta, causa di sviamento irreversibile di clientela, tanto per effetto dell’acquisizione di ordini non indirizzati alla ricorrente, quanto per danno d’immagine, cagionato dall’insoddisfacente qualità del servizio e dei prodotti, peraltro di difficile stima, consente di ravvisare altresì nel caso di specie l’ulteriore requisito del periculum in mora”.
Così, in accoglimento del ricorso, è stata ordinata alla società concorrente la immediata interruzione di qualsivoglia utilizzo abusivo del marchio e della keyword “Interflora” sul motore di ricerca di Google, per promuovere i propri prodotti e/o servizi, con inibizione dell’uso e dell’inserimento della keyword “Interflora” come parola chiave negativa sul medesimo motore di ricerca, in aggiunta alla fissazione di una penale di € 500,00 per ogni successiva violazione.
Il marchio e le sue funzioni quali elemento essenziale per la valutazione di liceità
È noto, e ribadito dalla sentenza qui commentata, come il logo utilizzato quale segno distintivo dell’attività di un’impresa è considerato valido marchio di fatto, qualora sia riscontrato:
- il suo carattere distintivo, occorrendo verificare la sussistenza di un sufficiente carattere individualizzante, idoneo ad indicare l’origine imprenditoriale dei beni o servizi offerti dalla titolare;
- l’uso effettivo e continuo;
- la notorietà non puramente locale, dalla quale si desuma la conoscenza effettiva del segno da parte della clientela interessata.
Solo la verificata sussistenza di tutti i requisiti costitutivi del diritto sul marchio fa scattare, dunque, tutte le tutele ed i rimedi preposti alla difesa del marchio registrato, in virtù delle disposizioni di cui all’art. 2571 del Codice civile e all’art. 2, comma 4 del Codice della proprietà intellettuale, che garantiscono protezione qualitativamente identica al marchio registrato e al marchio di fatto.
L’art. 21 del Codice della proprietà intellettuale traccia i limiti dei diritti attribuiti dalla privativa del segno definendo – alla luce del generale obbligo di lealtà commerciale – una serie di legittime utilizzazioni da parte dei non titolari: per indicare la destinazione di un prodotto o di un servizio, alla duplice condizione che ciò risulti necessario (e cioè non altrimenti sostituibile) al fine di descrivere, appunto, la destinazione del prodotto o del servizio; in ogni caso l’utilizzazione del segno sia conforme ai principi della correttezza professionale.
Ove l’impiego del segno crei la possibilità di un collegamento dell’impresa terza con il marchio registrato, l’uso non è consentito, tornando a prevalere il regime di esclusiva accordato dalla legge al titolare del marchio.
Google Ads: il servizio di posizionamento a pagamento di Google
La condotta illecita qui esaminata trae origine dall’abusivo utilizzo di parole chiave (o keywords) sul motore di ricerca di Google.
L’inserzionista, ossia colui che vuole comparire fra i risultati dell’operazione di ricerca attivata dall’utente, pagherà a Google tale servizio di posizionamento per ogni selezione (c.d. click) del proprio link pubblicitario (c.d. pay per click). La stessa parola chiave può essere selezionata da più inserzionisti, in tal caso l’ordine di visualizzazione dei diversi link è determinato in base al prezzo massimo per click, da quante volte i detti link sono stati selezionati in precedenza e dalla qualità e pertinenza dell’annuncio in base alle valutazioni di Google.
La giurisprudenza comunitaria, quindi, non considera di per sé illecito l’uso del marchio altrui quale parola chiave nel servizio Google ADS (o anche come keyword), ma solo ove ricorrano specifiche condizioni: “per quanto importante essa possa essere, la protezione offerta dall’art. 5, n. 1, lett. a), della direttiva mira solo a consentire al titolare del marchio d’impresa di tutelare i propri interessi specifici in quanto titolare di quest’ultimo, ossia garantire che il marchio possa adempiere le sue proprie funzioni. L’esercizio del diritto esclusivo conferito dal marchio deve essere riservato ai casi in cui l’uso del segno da parte di un terzo pregiudichi o possa pregiudicare le funzioni del marchio e, in particolare, la sua funzione essenziale di garantire ai consumatori la provenienza del prodotto”.
Anche a voler prescindere dal ruolo attivo o neutro svolto da Google nella gestione del detto servizio pubblicitario, la Corte di Giustizia ha comunque ritenuto che Google debba essere in ogni caso ritenuta responsabile nell’ipotesi in cui “essendo venuta a conoscenza della natura illecita di tali dati o di attività di tale inserzionista, egli abbia omesso di prontamente rimuovere tali dati o disabilitare l’accesso agli stessi”.
Di Avv.ti Vincenzo Colarocco e Priscilla Casoni; Studio legale Previti